Raccontarsi sì, snaturarsi no

Sei entrata nel magico mondo di Instagram e Facebook e hai visto che più o meno tutti i tuoi contatti fanno microblogging: raccontano online dettagli anche privati della loro vita. E ti domandi se dovresti farlo anche tu. Ti assalgono dubbi come: ma è proprio necessario esporre i fatti propri sulla pubblica piazza dei social?

Se sei una freelance, cosa dovresti raccontare, quanto sarebbe meglio rivelare di te e del tuo privato?

Benvenuta nell’era del personal storytelling

Lo storytelling è una tecnica di comunicazione che utilizza la capacità narrativa come strumento indiretto di marketing. Indiretto perché, nel raccontare, non si vende un prodotto o un servizio in modo esplicito. Il racconto, strutturato secondo le regole dello storytelling, fa in modo che il cliente sviluppi empatia per il brand e senta di appartenere a una comunità di persone che condividono gli stessi valori veicolati dal brand. Se sei una solopreneur, se il tuo brand sei tu, lo storytelling diventa personal, perché raccontarti significa raccontare il tuo mondo e, allo stesso tempo, i tuoi prodotti o servizi. Il personal storytelling si nutre di successi e fallimenti, di aspirazioni e valori, di passioni e avversioni, di scelte e rinunce. Tutto questo, all’interno di un racconto coerente e continuativo, porta il tuo cliente ideale a fidarsi di te, ad avere l’impressione di conoscerti da sempre. E se lo storytelling è fatto bene, a un certo punto, sceglierà di acquistare da te “naturalmente”.

Dal personal storytelling alla piazza di paese è un attimo

Fare storytelling, cioè — ripetiamolo — usare la tecnica di comunicare raccontando per coinvolgere l’audience e fare marketing, non è mica facile. Solo che tutti pensano di saperlo fare. Con il risultato di ritrovarsi il feed dei social pieno di racconti dei fatti altrui che non hanno alcuna finalità apparente. E non parlo di tua sorella, che ha il profilo privato e condivide le foto dei gatti con gli hashtag #catlover, #catsofinstagram e #ilovemycat. Parlo di persone che lavorano in proprio e che usano i social per promuovere la loro professione.

Ogni volta che pensi di raccontare sui social qualcosa di personale, chiediti se quel racconto serve a uno di questi obiettivi:

  • Ti aiuta a migliorare la tua autorevolezza/reputazione?
  • Insegna qualcosa/trasmette un contenuto di valore per il tuo pubblico?
  • È un esempio che può essere di ispirazione per il tuo pubblico?
  • Ti avvicina al tuo pubblico/crea empatia (senza autocommiserazione)?
  • Esprime dei valori che il tuo pubblico può condividere e supportare?

Se la risposta a queste domande è no, fai attenzione: basta poco per trasformare i social in una piazza di paese dove le vicine pettegole vengono a farsi i fatti tuoi. Forse è meglio aggiustare il tiro e fare in modo che quello che racconti sia utile al tuo brand e/o alla tua audience.

Ma non vogliamo parlare dell’autenticità?

Sento dire spesso che quando ci si racconta online bisogna essere autentici. L’autenticità è cosa ben diversa dalla verità. Quando ci raccontiamo, non dobbiamo mai dimenticare la coerenza: con il nostro lavoro, con i nostri valori, con l’immagine di noi che abbiamo scelto di mostrare. Non sempre ciò che raccontiamo è vero, nel senso di realmente accaduto, ma deve essere verosimile. In questo senso, l’autenticità non solo è possibile ma anche auspicabile. Ma se parliamo di autenticità come sinonimo di spontaneità, allora il discorso si fa complesso. Se stai sui social per lavoro e ti affidi all’improvvisazione, all’ispirazione divina, all’estro del momento, scusami se te lo dico in modo così diretto ma forse hai bisogno di rivedere la tua strategia. Perché lo storytelling — l’ho detto già due volte ma ripetiamolo una terza — è una tecnica al servizio del marketing. Ha un obiettivo. E, se non sai qual è quell’obiettivo, la tua comunicazione sarà bellissima e magari anche autentica ma non so quanti risultati ti porterà. E poi, se non hai una strategia, come fai a misurare i risultati? Ma non divaghiamo. Perseguire l’autenticità ha senso se ti aiuta a mantenere la coerenza del tuo brand, quando ti fa dire “è proprio una cosa da me”.

E quindi cosa devi raccontare di te?

Ti rigiro la domanda: tu cosa vuoi raccontare? Qualche giorno fa, durante una consulenza, ho suggerito a una mia cliente di raccontare la sua esperienza riguardo alla maternità in un post che stava scrivendo. Lei è diventata seria e mi ha detto “no, di mia figlia non voglio parlare”. Non era certo quello che le avevo suggerito io ma, dalla sua reazione, ho capito che ero di fronte a un confine ben definito. Perché è di questo che si tratta: di stabilire i tuoi confini, anche quando fai personal storytelling. Io, ad esempio, ho inserito nel mio storytelling su Instagram anche il mio cane Athena e mio marito Paolo. Athena ha la funzione di aggiungere un elemento buffo e giocoso alla mia comunicazione. Parlare di Paolo, che è a sua volta un freelance, mi permette invece di portare visibilità anche a lui e alla sua attività. Sono scelte ragionate, che ho fatto a monte. Sono una persona introversa e molto riservata, quindi scelgo sempre quali esperienze condividere e quali argomenti trattare. Non sei obbligata a parlare della tua famiglia, dei tuoi figli, di come passi il tempo libero. Devi sentirti a tuo agio quando ti racconti. Se non lo fai, si avvertirà: il tuo racconto sarà costruito, innaturale, ingessato. Tutt’altro che autentico.

Come puoi definire i tuoi onfini? Ho preparato un esercizio che può esserti utile se hai difficoltà a scegliere gli argomenti personali di cui vuoi parlare. Lo puoi scaricare dal bottone qui sotto.

Psst! Lo sai che ho ideato un servizio per chi fa fatica a raccontarsi online? Magari ti interessa 😉
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