Fallire fa schifo. Il fallimento genera in noi una serie di emozioni che fatichiamo a gestire perché è legato all’idea che abbiamo di noi stesse e a come vogliamo che le altre persone ci percepiscano. Il modello della donna e dell’uomo sempre vincenti è tipico della società della performance e, per quanto possa essere affascinante, non solo è deleterio ma è anche inverosimile. Non fallire mai è impossibile, facciamocene una ragione.
Normalizziamo il fallimento
Il fallimento succede. Fa parte della vita di tutti i giorni e non risparmia nessuno. Fallire, in sé, non ha nulla di eccezionale. È un dato di fatto. Metti a punto un progetto, ti prepari al meglio delle tue possibilità e poi provi a portare a casa il risultato. Può andare bene e può andare male: dipende da una serie di fattori, nessuno dei quali mette in discussione il tuo valore o la tua bravura. Se il tuo unico obiettivo è ottenere senza intoppi il risultato a cui aspiri, così tutti possono vedere quanto sei brava, allora il fallimento è la cosa peggiore che ti possa capitare. Sarai preda di quelle emozioni che etichettiamo come negative e la tua unica preoccupazione sarà salvare la faccia. Il fallimento non ti servirà a nulla e, soprattutto, non avrai acquisito alcun elemento che possa esserti utile per il prossimo tentativo.
Prepariamoci a fallire, sì, e anche in fretta
Non siamo abituate a fallire perché abbiamo paura del fallimento ed è proprio questa paura che ci impedisce di buttarci nelle imprese. Così, passiamo un sacco di tempo a curare il nostro progetto nei minimi dettagli, assecondando il perfezionismo che ci fa procrastinare. Quando finalmente decidiamo che siamo pronte e proviamo a realizzare l’impresa a cui tanto ci siamo affezionate, non sappiamo come affrontare un possibile insuccesso. Non ci siamo preparate a fallire. Una delle chiavi per imparare a fare amicizia con il fallimento è fallire in fretta: prima proviamo ed eventualmente falliamo, prima possiamo elaborare i risultati, andare avanti e provare di nuovo.
L’importanza di abbracciare il fallimento
Se fallire è normale, l’aspetto interessante è capire come reagiamo di fronte a un fallimento. Il modo in cui ci comportiamo determina i nostri passi successivi. Il fallimento può essere attivo o passivo, a seconda che ci sia utile a imparare o che sia solo un’occasione per piangerci addosso. Che un fallimento possa essere un’esperienza di crescita e apprendimento dipende solo dal nostro approccio. Abbracciare il fallimento è la base per il successo futuro. Se siamo in grado di non cadere preda del senso di colpa, assumerci la piena responsabilità del nostro fallimento significa rivendicare il potere di cambiare e di migliorare. OK, ma in concreto come facciamo a imparare da un fallimento? Dobbiamo analizzare i dati a nostra disposizione.
L’analisi dei dati deve essere il più oggettiva possibile
Se riusciamo a oggettivare il fallimento e a considerarlo semplicemente un test che non ha funzionato come avevamo previsto, possiamo individuare su quali punti abbiamo ancora bisogno di lavorare. Dobbiamo essere molto obiettive quando procediamo a questo tipo di analisi. Tendiamo a considerare fallimento qualunque cosa sia al di sotto dei nostri standard e quindi, quando qualcosa va storto, istintivamente vorremmo buttare via tutto e ricominciare da zero. Ma questo comportamento sarebbe un grosso errore. In un progetto c’è di sicuro qualcosa che ha funzionato, anche in minima parte. Non riconoscerlo significa vanificare tutto il lavoro fatto fino a quel momento e trascurare dei dati che potrebbero essere significativi. Supponiamo che abbiamo lanciato un nuovo prodotto o servizio e che il lancio sia stato un flop. Magari avevamo l’obiettivo di vendere 50 nuovi corsi online o 50 borse della nuova collezione e invece le vendite sono state di molto inferiori alle nostre proiezioni. In quel progetto abbiamo investito le nostre risorse (tempo, denaro, impegno, ricerca…): valutare quello che non ha funzionato può farci imparare tanto come prendere in considerazione quello che ha funzionato.
E se il nostro progetto fosse un prototipo?
Di solito, quando affrontiamo l’analisi dei dati, abbiamo a disposizione due domande che possono aiutarci a migliorare:
- Qual è il problema?
- Come possiamo risolverlo?
Fallire non ci garantisce che la prossima volta avremo successo — l’hai mai sentita quella storia di Edison che, prima di brevettare la lampadina, ha dovuto fallire diecimila volte? Ecco. Analizzare il fallimento, però, ci aiuta a sapere quali errori evitare la prossima volta e quali aspetti del nostro modello vanno sistemati. Proviamo a cambiare prospettiva e a metterci nell’ottica che il nostro progetto è come un prototipo o un beta test: non è perfetto ma da quel punto in poi può solo migliorare.
Cambiamo punto di vista sul fallimento
Fallire, in quest’ottica, è anche uno strumento che allena la creatività:
- ci porta a considerare e formulare ipotesi alternative, attivando il pensiero laterale
- ci costringe a stare scomode, a provare e riprovare assumendo sempre un nuovo sguardo.
E quindi, da domani tutte a brindare ai nostri fallimenti? Certo che no! Siamo pur sempre calate nella società della performance, che condiziona i nostri comportamenti e le nostre reazioni. Quello che possiamo fare è decidere di vedere il potenziale del fallimento. Non sarà una reazione immediata ma io dico che ce la possiamo fare. Lasciamo andare il perfezionismo e buttiamoci: proviamo a realizzare i nostri sogni.
- Andrà bene? Ottimo, godiamoci il successo.
- Andrà male? Rifiniamolo meglio finché non lo facciamo funzionare. E poi godiamoci il successo.